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Oltre il Rinascimento a Firenze – Il Nuovo Palazzo di Giustizia. L’inizio della storia

Il Nuovo Palazzo di Giustizia è l’opera più impegnativa, spettacolare e interessante degli ultimi decenni. E naturalmente è stato fonte di infinite polemiche, come tutto a Firenze.

L’esigenza di riunire le funzioni giudiziarie risale addirittura al 1867, ai tempi di Firenze Capitale (1865 – 1870). In attesa di costruire una “cittadella della giustizia”, per decenni gli uffici vengono distribuiti “provvisoriamente” in molti palazzi diversi, spesso lontani tra loro. Continuamente vengono costituite commissioni di esperti che propongono l’utilizzazione di vari palazzi del centro, ma nessun vero progetto viene realizzato. Nel 1964 il Comune prende in considerazione l’idea di demolire il vecchio Parterre in Piazza della Libertà, costruito nel 1937 come Palazzo delle Esposizioni sull’area di un giardino alla francese (parterres) costruito dal Granduca Pietro Leopoldo fuori dalla mura, davanti all’Arco di Trionfo dei Lorena. Ma nel 1974 una commissione istituita dal Comune cambia ancora una volta idea e decide per l’area periferica degli ex-Macelli (il vecchio mattatoio). Nel 1976 viene individuata un’altra area a Peretola, un sobborgo, all’epoca decisamente fuori città. Con la decisione della Fiat di trasferirsi a Campi Bisenzio, la grande area tra via di Novoli e viale Guidoni nel 1982 viene presa in considerazione.

Questi continui cambiamenti nascondono spesso manovre clientelari, politiche e addirittura elettorali, in quanto un’opera del genere avrebbe mosso grandi investimenti, molto denaro, interessi aziendali, appalti, consulenze, commesse e posti di lavoro.

Finalmente nel 1987 si decide per l’area ex-Fiat e il progetto viene assegnato a Giovanni Michelucci e a Leonardo Ricci, i due architetti toscani più rappresentativi dell’epoca. Ricci ha già l’esperienza del Palazzo di Giustizia di Savona, realizzato in quegli anni, che anticipa lo stile e molti elementi strutturali del palazzo di Firenze. In particolare i materiali, la grande vetrata obliqua addossata a corpi sporgenti, la finestra circolare simile a un rosone da chiesa, il “brutalismo” del cemento grezzo a vista. E anche le infinite polemiche che lo hanno accompagnato.

I due architetti collaborano fino al 1987 con i primi disegni e stabiliscono le idee di base. Ma poi Michelucci si ritira, ufficialmente per disaccordi con la committenza. Quali disaccordi? Michelucci si rende conto di non volere un edificio centralizzato in periferia per tutti i servizi giudiziari, come richiesto dal Ministero Italiano della Giustizia. Vede l’idea di spostare così tante funzioni civili dal centro storico e isolare la “città della giustizia” in periferia come uno snaturamento, una rottura con la storia e con il ruolo sociale dei centri storici. È poco convinto della possibilità di collegare il nuovo edificio con l’identità della città. Teme che rimanga un’isola separata, una cittadella sentita come “altro, lontano e alla fine ostile”. Teorizza quindi di utilizzare spazi disseminati all’interno del centro storico, riadattandoli e ristrutturandoli. Continua a vedere il centro come protagonista, è legato all’idea di Filippo Brunelleschi, la Cupola del Duomo come riferimento della vita sociale e civile, perno su cui tutta la città converge, anche le periferie e le colline, e che determina la sua identità.

Da meditare la seguente affermazione profetica di Michelucci, considerando che è uno dei maggiori architetti italiani del XX secolo: “A mio parere però non è la periferia che ha cambiato la città, semmai l’ha cristallizzata; una città cioè che non è in grado di sviluppare le sue caratteristiche, fatalmente è costretta a vedersi circondata, aggredita dal diverso da sé, per cui il concetto di identità si restringe a pochissimi monumenti, e tutto il resto non appare come sviluppo di un organismo che naturalmente nasce, cresce e muore, ma come metastasi prodotte da potenze oscure”.

Il secondo motivo del suo disaccordo è il “vuoto di committenza”, cioè la poca chiarezza  dell’immagine che la giustizia vuole dare di sé e che Michelucci vorrebbe riflessa nella costruzione. Sono gli anni ’80 e il paese si sta trasformando velocemente, ma in modo confuso e senza sapere chiaramente dove sta andando. Michelucci percepisce questa confusione e constata che il committente, il Ministero della Giustizia e la classe politica del tempo, non è in grado di chiarire l’immagine da dare agli edifici giudiziari, quello che per l’architetto razionalista costituisce il “senso” dell’opera. Gli uffici mandano continuamente piani, relazioni contraddittorie, funzioni nuove, percorsi aggiuntivi, varianti, schemi sempre diversi spesso in contrasto tra loro, dimostrando chiaramente di non avere le idee chiare. In queste condizioni si dichiara incapace di operare, non riesce ad avere una visione.
Continua …


Il lato est, praticamente il retro del palazzo


Veduta da sud-est dal laghetto di San Donato

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